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La lotta all’inflazione non deve ricadere solo sulla BCE

Commercio ed Economia - Agosto 1, 2022

La Federal Reserve ha appena effettuato un altro aumento dei tassi di interesse di 75 punti base, il quarto dall’inizio dell’anno, in risposta all’aumento dell’inflazione, che a giugno ha raggiunto un record di 40 anni al 9,1%. Sebbene i numeri possano sembrare, in superficie, simili a quelli registrati in Europa, l’inflazione statunitense è stata guidata da dinamiche diverse, che riflettono più i fattori interni che quelli esterni. In questo contesto, i mercati prevedono un ulteriore inasprimento nei prossimi mesi, seguito da un taglio dei tassi l’anno prossimo, spinto da un’economia in contrazione. In effetti, l’economia statunitense si è contratta per due trimestri consecutivi nella prima metà dell’anno, soddisfacendo, a prima vista, la definizione di recessione tecnica.

Passando a questa sponda dell’Atlantico, la BCE ha optato per un aumento di 50 pb a luglio, il primo dal 2011, ponendo fine all’era dei tassi di interesse negativi iniziata nel 2014. Dopo aver sottovalutato il livello dell’inflazione e la sua persistenza dall’estate scorsa, la BCE si trova ora in una situazione potenzialmente imbarazzante: probabilmente forzerà una recessione per combattere pressioni inflazionistiche che hanno avuto origine altrove – vale a dire, le strozzature dell’offerta e la crisi energetica – per salvaguardare la stabilità dei prezzi.

Detto questo, sarebbe un terribile errore se la lotta alle attuali prospettive inflazionistiche dell’Eurozona ricadesse esclusivamente sulla BCE. Significherebbe tassi ancora più alti – e quindi meno investimenti – con la perdita di posti di lavoro, soprattutto tra i gruppi di lavoratori più vulnerabili. In effetti, questo è ciò che accade quando l’inflazione viene combattuta attraverso la compressione della domanda aggregata; d’altro canto, se i prezzi aumentano, i policymaker potrebbero espandere l’offerta in modo da attenuare le pressioni inflazionistiche. È vero che ci vuole un po’ di tempo per farlo, ma i prezzi più alti dell’energia sono destinati a rimanere. Così come le tensioni geopolitiche e, con esse, i colli di bottiglia e le interruzioni della catena del valore.

Non intendo suggerire che il denaro debba essere sottratto al contribuente medio europeo attraverso un aumento delle tasse, in modo da ridurre ulteriormente la sua capacità di spesa. Mi riferisco piuttosto alla necessità ancora più impellente di perseguire politiche di crescita, ad esempio garantendo che: i) i massicci investimenti finanziati in risposta allo scoppio della pandemia – per lo più nell’ambito della NextGenerationEU – progrediscano senza ritardi in modo da aumentare sia l’offerta che la crescita potenziale; ii) la politica energetica venga rivista fissando obiettivi più realistici di decarbonizzazione in linea con la nuova realtà geopolitica in cui ci troviamo; iii) le leggi e i regolamenti sulla concorrenza sono emanati soprattutto nei confronti delle grandi aziende, non solo delle piccole imprese.

Le priorità di cui sopra, anche se abbozzate in modo semplice, sarebbero molto coerenti con le posizioni conservatrici in Europa. Secondo un recente sondaggio, i cittadini che hanno opinioni in linea con l’ECR apprezzano molto il mercato unico e le opportunità economiche che ne derivano. Affrontare le pressioni inflazionistiche non così transitorie con un programma incentrato sulla crescita attenuerebbe l’inflazione e creerebbe al contempo un’UE più prospera a vantaggio di tutti.

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