
Il recente accordo commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea, che ha ridotto al 15% i dazi per una serie di settori strategici, è stato accolto con favore da istituzioni comunitarie e governi nazionali, che hanno salutato l’intesa come una vittoria diplomatica capace di scongiurare una guerra commerciale con conseguenze potenzialmente devastanti. Tuttavia, sebbene la decisione segni un punto di svolta nei rapporti transatlantici, essa non rappresenta ancora una soluzione definitiva ai problemi strutturali che caratterizzano le relazioni economiche tra le due sponde dell’Atlantico. L’intesa, raggiunta a luglio tra la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il presidente statunitense Donald Trump e formalizzata ad agosto, costituisce infatti più un armistizio che una pace duratura. Essa offre alle imprese europee un quadro più prevedibile, ma lascia irrisolte questioni cruciali come l’acciaio, l’alluminio e, soprattutto, il settore agroalimentare, che per Paesi come l’Italia e la Francia riveste un’importanza fondamentale.
IL CONTENUTO DELL’ACCORDO
La dichiarazione congiunta UE-USA stabilisce una riduzione significativa delle tariffe doganali, fissando un’aliquota massima del 15% per la stragrande maggioranza delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti. Tra i settori beneficiari figurano automobili, prodotti farmaceutici, semiconduttori e legname, comparti che rappresentano una parte consistente del commercio bilaterale. Il provvedimento, retroattivo al 1° agosto 2025, prevede inoltre che i beni già sottoposti a dazi della nazione più favorita (Npf) superiori al 15% non subiscano ulteriori aggravi. Questo meccanismo garantisce, almeno sulla carta, una maggiore stabilità per le imprese esportatrici, in particolare per l’industria automobilistica tedesca e quella farmaceutica con forte presenza in diversi Stati membri. Un altro aspetto rilevante riguarda l’impegno a lavorare in futuro per estendere il regime agevolato ad altri settori, obiettivo che resta cruciale per l’Unione. Tuttavia, i comparti agroalimentare, vinicolo e alcolico restano al di fuori dell’intesa, nonostante le pressioni esercitate da alcuni governi.
LE ESCLUSIONI PROBLEMATICHE: ACCIAIO, ALLUMINIO E AGROALIMENTARE
Proprio le esclusioni rappresentano l’elemento più critico dell’intesa. Il comparto dell’acciaio e dell’alluminio, soggetto ancora a tariffe del 50%, resta fonte di tensioni tra Bruxelles e Washington. La questione della sovraccapacità globale, in particolare quella cinese, pesa sulla possibilità di un accordo più ampio: gli Stati Uniti insistono su una protezione rafforzata dei propri settori strategici, mentre l’Unione teme un impatto negativo sulla competitività delle sue imprese. Non meno rilevante è la mancata inclusione del settore agroalimentare e vinicolo. Per Paesi come l’Italia, dove l’export di vino rappresenta uno dei principali asset economici e culturali, l’assenza di esenzioni tariffarie costituisce un limite evidente. Le associazioni di categoria hanno espresso preoccupazione per un accordo che, pur evitando nuovi dazi, non apre reali opportunità di crescita in mercati già altamente competitivi.
LA PROSPETTIVA ITALIANA
Il Governo italiano ha definito l’intesa “non ideale ma utile”, sottolineando come il principale merito dell’accordo sia stato quello di evitare una guerra commerciale. L’Italia, fortemente dipendente dalle esportazioni in settori come moda, agroalimentare e meccanica, ha bisogno di una cornice normativa chiara e stabile per pianificare la propria strategia economica. In questo senso, l’accordo offre prevedibilità, ma non risponde ancora alle esigenze dei produttori nazionali che chiedono un accesso più libero al mercato statunitense.
L’ILLUSIONE DELLA STABILITÀ: UNA TREGUA FRAGILE
Da un punto di vista accademico, l’accordo può essere interpretato come un tipico esempio di “tregua tariffaria”. Gli Stati Uniti, storicamente orientati a difendere la propria industria interna con politiche protezionistiche, hanno accettato un compromesso per motivi principalmente geopolitici: consolidare l’alleanza con l’Europa in funzione anticinese e rafforzare la cooperazione industriale nei settori strategici. L’Unione, dal canto suo, ha evitato di trovarsi in una spirale di rappresaglie che avrebbe colpito settori sensibili, come l’automotive tedesco o la farmaceutica svizzero-tedesca. Tuttavia, restano irrisolte le tensioni legate alle normative digitali (Digital Markets Act e Digital Services Act) che Bruxelles ha tenuto fuori dai negoziati per non compromettere la propria autonomia regolatoria. Questo significa che lo spazio per conflitti futuri non è affatto eliminato.
IMPATTI SULL’ECONOMIA EUROPEA
L’accordo, sebbene accolto positivamente, non deve essere interpretato come una panacea per l’economia europea. I benefici derivanti dalla riduzione dei dazi saranno distribuiti in maniera diseguale tra gli Stati membri: la Germania e i Paesi Bassi, con la loro forte esposizione nell’automotive e nella farmaceutica, ne trarranno vantaggio immediato, mentre Italia, Francia e Spagna rimangono penalizzate dall’esclusione del comparto agroalimentare. Inoltre, la natura temporanea e non vincolante dell’intesa introduce un elemento di incertezza: le imprese europee potrebbero esitare a compiere investimenti di lungo periodo senza garanzie che il regime tariffario resti stabile. Questo approccio basato su “aspettare e vedere” rischia di ridurre l’impatto positivo dell’accordo sull’economia reale.