
Il tema della migrazione ha assunto, negli ultimi decenni, una centralità crescente nel dibattito politico europeo. In questo scenario complesso e polarizzato, la Danimarca si è distinta come attore atipico: inizialmente criticata per il suo approccio severo all’immigrazione, è ora tra i promotori di una linea dura che sta guadagnando consenso all’interno dell’Unione Europea. Il passaggio a punto di riferimento delle politiche migratorie europee merita un’analisi approfondita, soprattutto alla luce della presidenza semestrale danese del Consiglio dell’UE. La posizione storica e politica della Danimarca sull’immigrazione può, infatti, risultare strategicamente vantaggiosa per promuovere e implementare politiche comuni di contrasto all’immigrazione clandestina, anche in direzione di quanto sta cercando di attuare il Governo italiano con gli accordi con l’Albania. Tale trasformazione deve essere letta nel più ampio contesto delle dinamiche interne alla UE, dove le politiche migratorie sono sempre più influenzate da considerazioni di sicurezza, controllo demografico e gestione dell’opinione pubblica. La Danimarca, attraverso un percorso politico caratterizzato da pragmatismo istituzionale e consenso sociale, ha saputo strutturare un modello migratorio che ora viene guardato con interesse da diversi Stati membri. Non si tratta semplicemente di una serie di misure restrittive, ma di una strategia articolata, che combina politiche di contenimento, esternalizzazione delle procedure d’asilo, ridefinizione dei criteri di residenza e un linguaggio politico capace di coniugare sicurezza e responsabilità sociale. Il fatto che tali politiche provengano da un governo socialdemocratico rende il caso danese ancor più degno di attenzione: la scelta di affrontare la questione migratoria con strumenti normalmente associati a partiti conservatori o populisti dimostra come la gestione delle migrazioni stia ridefinendo le tradizionali categorie ideologiche. Ciò suggerisce che la Danimarca non sia soltanto un attore isolato con una posizione particolare, ma un potenziale precursore di un nuovo paradigma europeo, in cui l’efficacia delle politiche migratorie può costituire un punto di equilibrio tra la legittimazione democratica e le esigenze della governance europea. In quest’ottica, la presidenza danese dell’UE potrebbe rappresentare una finestra politica privilegiata per dare forma istituzionale a questo nuovo orientamento, fungendo da catalizzatore per una riforma strutturale della politica migratoria europea.
LA POSIZIONE STORICA DELLA DANIMARCA SULL’IMMIGRAZIONE
La Danimarca ha a lungo mantenuto una posizione autonoma rispetto al quadro normativo comunitario in materia di asilo e immigrazione. A differenza di molti Stati membri, essa si avvale di una clausola che le permette di non aderire pienamente al sistema europeo comune di asilo (CEAS). Questa autonomia ha facilitato l’adozione di politiche particolarmente restrittive a partire dalla crisi migratoria del 2015-2016. La risposta danese non si è limitata all’inasprimento dei controlli di frontiera, ma ha incluso riforme strutturali: nel 2019, la protezione temporanea è divenuta la norma per i richiedenti asilo, rendendo più difficile l’ottenimento della residenza permanente. Un ulteriore punto di svolta è stato rappresentato dal memorandum firmato con il Ruanda nel 2021, in cui Copenaghen proponeva di trasferire i richiedenti asilo in centri extraterritoriali. Sebbene il progetto sia stato sospeso in seguito alle critiche della Commissione Europea e alle difficoltà operative, esso ha stabilito un precedente politico che oggi viene rilanciato su scala continentale.
L’EVOLUZIONE DEL CONTESTO EUROPEO
Nel maggio 2024, con l’approvazione del Nuovo Patto su Migrazione e Asilo, l’UE ha aperto a un approccio più flessibile e decentralizzato nella gestione dei flussi migratori. Questo momento ha rappresentato un’opportunità per la Danimarca di far valere la propria esperienza e visione strategica. Solo due giorni dopo l’adozione del patto, il Governo danese ha pubblicato una lettera congiunta firmata da 15 paesi, tra cui attori chiave come Italia, Grecia e Paesi Bassi, in cui si proponeva l’esternalizzazione delle procedure d’asilo come soluzione efficace e sostenibile. Il modello danese è quindi passato da eccezione a riferimento, in un momento in cui la stanchezza politica e sociale di fronte a flussi migratori irregolari sempre più consistenti rende più accettabili politiche che, fino a pochi anni fa, sarebbero state considerate radicali.
LA PRESIDENZA DANESE DELL’UE: UNA FINESTRA STRATEGICA
L’assunzione della presidenza semestrale del Consiglio dell’UE da parte della Danimarca nel secondo semestre del 2025 rappresenta una congiuntura decisiva. Non solo per l’agenda migratoria, ma per la possibilità di influenzare direttamente i meccanismi decisionali europei. Il Governo danese mira a raggiungere un accordo entro fine anno, non solo sull’esternalizzazione delle procedure, ma anche sulla ridefinizione del concetto di “Paese terzo sicuro” — un nodo giuridico centrale che condiziona la possibilità di trasferire migranti al di fuori del territorio UE. Da un punto di vista istituzionale, la presidenza del Consiglio offre strumenti significativi per pilotare l’agenda politica.
L’ECCEZIONE SOCIALDEMOCRATICA: IL PARADOSSO DELLA SINISTRA RESTRITTIVA
Un elemento distintivo del caso danese è rappresentato dall’identità politica del suo Governo. A differenza di quanto accade in altri contesti europei, in Danimarca la stretta migratoria è promossa da un esecutivo a guida socialdemocratica. La premier Mette Frederiksen e il ministro dell’Immigrazione Kaare Dybwad hanno più volte sottolineato come il controllo dei flussi migratori sia una condizione necessaria per preservare la coesione sociale e mantenere il consenso popolare verso lo Stato sociale. Questo approccio ha una sua coerenza interna: l’idea è che politiche progressiste in campo climatico e sociale possano essere sostenute politicamente solo se accompagnate da una linea severa sull’immigrazione. Una strategia che ha pagato: la Danimarca è uno dei pochi Paesi in cui un governo socialista è riuscito a mantenere una solida base elettorale in un contesto europeo generalmente sfavorevole alla sinistra tradizionale.
PROSPETTIVE FUTURE: VERSO UNA NUOVA ARCHITETTURA EUROPEA?
La presidenza danese potrebbe segnare una svolta nel modo in cui l’Europa affronta la questione migratoria. Se Copenaghen riuscisse a guidare con successo l’approvazione di un quadro giuridico per l’esternalizzazione delle procedure d’asilo, si creerebbe un precedente con implicazioni durature. Il modello degli accordi bilaterali con Paesi terzi per hub extra-UE, si discosta in modo significativo dalle logiche che, fino ad oggi, hanno informato l’approccio europeo alla migrazione, centrato sulla ridistribuzione interna dei richiedenti asilo, sulla cooperazione interstatale e sul rispetto delle convenzioni internazionali in materia di rifugiati. L’esternalizzazione – se istituzionalizzata – rappresenterebbe un cambio di paradigma, in cui il controllo delle frontiere non sarebbe più una prerogativa geografica, ma politica e contrattuale. La sua esperienza, ancorata a una struttura normativa autonoma rispetto al CEAS, le conferisce la flessibilità necessaria per proporre soluzioni che altri Stati membri hanno solo di recente iniziato a prendere in considerazione. Tuttavia, il successo di questo progetto dipenderà dalla capacità di conciliare esigenze di controllo con il rispetto dei diritti fondamentali, una sfida giuridica e morale non indifferente. Il rischio è quello di inaugurare un paradigma che, pur soddisfacendo le opinioni pubbliche nazionali, comprometta i principi fondanti dell’Unione. Infatti, le politiche di deterrenza – se non accompagnate da meccanismi di garanzia legale, trasparenza amministrativa e monitoraggio indipendente – possono degenerare in pratiche discriminatorie o arbitrarie, in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE. La Corte di Giustizia dell’Unione e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo potrebbero giocare un ruolo cruciale nel determinare i limiti legittimi dell’esternalizzazione, soprattutto in relazione al principio di non-refoulement e al diritto a un ricorso effettivo. La posizione storica della Danimarca sull’immigrazione, un tempo marginale e criticata, si è trasformata in una risorsa strategica nel nuovo contesto europeo. Forte di una lunga esperienza in politiche restrittive e di una capacità di leadership istituzionale garantita dalla presidenza del Consiglio UE, Copenaghen si trova oggi nella posizione di influenzare in modo determinante le future politiche europee in materia di migrazione. Ma questa influenza è accompagnata dalla necessità di costruire consenso non solo tra gli Stati membri, ma anche all’interno della società civile e delle istituzioni europee. In assenza di un ampio supporto normativo e politico, l’attuazione di meccanismi esternalizzati rischia di frammentare ulteriormente il già fragile equilibrio delle politiche migratorie comuni. Tuttavia, tale influenza comporta una responsabilità notevole. Il modello danese non può essere esportato senza una riflessione critica sui suoi limiti, sia in termini di sostenibilità economica che di compatibilità giuridica. Solo un approccio che integri efficienza amministrativa, tutela dei diritti umani e legittimità politica potrà davvero offrire una soluzione condivisa e duratura al fenomeno della migrazione irregolare. In questa prospettiva, l’azione danese dovrà misurarsi non solo sulla capacità di ottenere risultati immediati, ma anche sull’impatto a lungo termine delle riforme proposte. In questo senso, la presidenza danese rappresenta non solo un’opportunità politica, ma anche un banco di prova per l’intera Unione Europea: il successo o il fallimento delle iniziative proposte segnerà profondamente il futuro delle politiche migratorie europee per gli anni a venire. Sarà proprio nel bilanciamento tra sovranità nazionale, cooperazione internazionale e diritti umani che si giocherà la credibilità e la coesione del progetto europeo in materia di migrazione.