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Taiwan: Il destino del mondo passa attraverso l’isola di Formosa

Cultura - Gennaio 9, 2024
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Le prossime elezioni aprono un’importante questione geopolitica.

Il 2024 è un anno spartiacque a livello politico globale: non solo per le elezioni europee, non solo per le presidenziali americane, ma anche per molti eventi elettorali in tutto il mondo che, tuttavia, possono cambiare significativamente lo scacchiere geopolitico.

La prima nazione – per quanto questo termine sia appropriato nel caso in questione – ad andare al voto è Taiwan, domenica 13 gennaio. I cittadini taiwanesi sono chiamati a scegliere il nuovo Presidente dell’arcipelago, dopo la scadenza del secondo mandato di Tsai Ing-wen (DPP, vicina a RE). I candidati sono già noti e rappresentano l’intero schema politico taiwanese.

Il candidato del DPP, il partito di governo, è l’attuale vicepresidente William Lai. Il Partito Democratico Progressista è il partito che ha fatto dell’anticomunismo e del nazionalismo taiwanese le sue battaglie principali e – pur essendo più di sinistra sulle questioni economico-sociali – si oppone strenuamente alla riunificazione con la Cina, sostenendo piuttosto la tesi dell’indipendenza da essa.

Il principale sfidante di Lai è Ho Yu-ih, attuale sindaco di Nuova Taipei e candidato del Kuomintang (KMT, vicino al PPE). Chiunque conosca un po’ di storia cinese sa che il Kuomintang era il principale rivale dei comunisti cinesi e che la spaccatura tra Taiwan e la Cina stessa deriva dalla disputa sulla sovranità cinese nata dalla guerra civile tra i nazionalisti guidati da Chiang Kai-shek e i comunisti sotto l’egida di Mao Zedong, con la fuga dei primi a Taiwan dopo la sconfitta. Nonostante i duri contrasti con i comunisti e nonostante l’appartenenza a varie organizzazioni internazionali di centro-destra che includono anche i repubblicani americani, il Kuomintang si è mosso verso posizioni più favorevoli alla riunificazione, anche se poi si è attestato su una “terza via”, cioè né indipendenza né unificazione.

Il terzo e ultimo candidato è Ko Wen-je, ex sindaco di Taipei (TPP), che si presenta come un candidato alternativo, più votato al pacifismo e al riformismo rispetto ai suoi rivali. La sfida, tuttavia, sembra concentrarsi principalmente tra il DPP e il Kuomintang, anche nella retorica cinese.

Intervistato dal quotidiano Le Monde, infatti, il ministro degli Esteri di Taiwan denuncia come la Cina stia lanciando una massiccia propaganda secondo cui una vittoria di Lai porterebbe alla guerra e a un rallentamento della crescita, mentre il successo del Kuomintang garantirebbe pace e prosperità. La Cina ha tutto l’interesse a sbarazzarsi del DPP dopo gli 8 anni di presidenza di Tsai Ing-wen, che si è sempre posizionata come sostenitrice dell’indipendenza di Taiwan al punto da ospitare più volte membri di spicco del governo americano.

Gli auspici di Xi Jinping, tuttavia, sono molto diversi dalla volontà politica del DPP: nel suo discorso di Capodanno, il presidente cinese ha affermato che “la Cina sarà sicuramente riunificata a Taiwan”, aggiungendo che “tutti i cinesi su entrambe le sponde dello Stretto dovrebbero essere legati da un obiettivo comune e condividere la gloria del rinnovamento della nazione cinese”. Xi ha anche fatto una serie di promesse, come l’aumento delle riforme, l’apertura “a tutti i livelli”, il vivace sviluppo economico e la promozione dell’istruzione, aggiungendo anche che Hong Kong e Macao non mancheranno mai di essere sostenute dal governo cinese.

A prescindere dal giudizio sul sostegno cinese a Hong Kong, è invece un dato di fatto che la Cina ha intensificato la pressione militare su Taiwan con esercitazioni regolari nelle acque dell’arcipelago che, se unite alle dichiarazioni di Capodanno, non fanno che dipingere scenari spaventosi per il futuro di Taiwan.

Tuttavia, non dobbiamo guardare alla questione con occhio distaccato: un’eventuale escalation militare tra Cina e Taiwan porterebbe inevitabilmente anche a un coinvolgimento americano, visto che Taiwan è sempre stata difesa dagli Stati Uniti che sostengono le capacità militari dell’isola. Il problema è anche produttivo: oltre il 60% dei semiconduttori a livello mondiale è prodotto a Taiwan, garantendo una gestione ancora libera dei rapporti commerciali a livello tecnologico. La sottomissione alla Cina sarebbe inevitabilmente una vittoria per il gigante asiatico, che acquisterebbe un’altra “materia prima” per dominare il mercato.

Sabato 13 gennaio per Taiwan sarà una data in cui si scriverà la storia: continuare a “resistere” all’ingerenza cinese o riunificare progressivamente l’arcipelago alla Repubblica Popolare Cinese. Le conseguenze globali di questa scelta saranno comunque notevoli.