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Come la “guerra fredda” colpisce i polacchi

Politica - Aprile 3, 2024

Alla Conferenza dei Partiti ECR di Cipro un’analisi approfondita della situazione nell’Artico e nell’Antartico.

Non si tratta solo di ghiaccio nell’Artico e nell’Antartico, ma di interessi geopolitici e di una lunga storia di influenza da parte di pochi, ma grandi, Paesi politici.

Venerdì 30 marzo, durante la Conferenza del Partito ECR organizzata a Cipro, Doaa Abdel Motaal, autrice e consigliere senior presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio, ha tenuto una conferenza sul tema sopra menzionato, suscitando la sorpresa e l’interesse del pubblico.

Come è noto, il Polo Sud (o meglio l’Antartide) è un territorio totalmente glaciale su cui si trovano le stazioni di ricerca scientifica di vari Stati, siano essi superpotenze internazionali o Paesi con interessi geografici locali. La situazione è invece diversa per il Polo Nord.

L’Artico è infatti costituito per lo più da banchi di ghiaccio polari e dal Mar Glaciale Artico, poi ci sono isole e arcipelaghi importanti come la Groenlandia (parte della Danimarca) o le Isole Svalbard (parte della Norvegia) e le aree costiere dei Paesi che si affacciano sull’Artico: Canada, Stati Uniti, Russia e le già citate Danimarca e Norvegia.

Un mare freddo e inospitale è tornato di grande attualità non solo per l’abbondanza di risorse sottomarine che ovviamente acuiscono le rivendicazioni di sovranità su di esse, ma c’è un importante mix di passaggi navali che apre scenari importanti sia dal punto di vista commerciale che – purtroppo – anche da quello bellico-militare.

Se l’interpretazione dei “giganti asiatici” (Cina, Giappone e India) vorrebbe vedere l’Artico come un “bene comune internazionale”, soprattutto per una ragione utilitaristica di contenimento dell’espansione di Russia e Stati Uniti e di sfruttamento delle risorse per la produzione delle loro aziende nazionali, i Paesi che si affacciano sull’Artico vorrebbero naturalmente un’identità regionale abbastanza chiara e distinta.

L’accordo trovato finora risale alla Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare degli anni Settanta, secondo cui gli Stati godono della sovranità sulle risorse naturali entro 370 km dalla costa, mentre ciò che si trova oltre questo limite è da considerarsi patrimonio internazionale. Una soluzione che oggettivamente avrebbe potuto funzionare, ma il problema principale è l’impossibilità di raggiungere quell’area internazionale senza prima passare per le acque “nazionali”, rendendo quasi impossibile lo sfruttamento delle risorse che vi si possono trovare. Basti pensare che il 13% del petrolio mondiale e il 30% del gas si trovano nell’Artico.

Chi oggi gioca il ruolo di “padrone” è la Russia: già nel 2007, la spedizione Arktika 2007 guidata da Artur Chilingarov ha mostrato agli altri concorrenti l’avanzamento tecnologico piantando una bandiera sul fondale del Polo Nord, a seguito di una richiesta di variazione dei confini esterni relativi alla piattaforma di Bering.

Ci sono poi diverse questioni molto importanti: come già accennato, l’Artico consentirebbe un passaggio molto più agevole per il commercio, visto che la distanza tra Shanghai e Montréal è di 7.700 miglia nautiche passando per il Mar Glaciale Artico, rispetto alle 11.300 che separano lo stesso porto cinese e New York attraverso il Canale di Suez; inoltre, l’Artico rappresenta un bacino di pesca fondamentale, soprattutto per quei Paesi che fanno del pesce il loro alimento principale come il Giappone, ma lo stesso vale per gli Stati Uniti, visto che il 60% del pesce consumato in America proviene dal Mare di Bering.

C’è poi da considerare il disastro economico causato dal surriscaldamento delle acque “pre-polari”: basti pensare che l’economia ittica di Scozia e Norvegia è al collasso mentre quella dell’Islanda e delle colonie danesi è più che fiorente, il tutto a causa della migrazione degli sgombri verso acque più fredde.

Oggi, però, sarebbe sbagliato e riduttivo pensare alla situazione artica come “tutti contro la Russia”: al contrario, le rivendicazioni hanno visto coinvolte anche nazioni sostanzialmente “amiche” in conflitti diplomatici particolarmente lunghi. Un caso particolare è la cosiddetta “guerra del whisky”, condotta tra Danimarca e Canada. Teatro dello scontro è l’Isola di Hans, un isolotto disabitato che è sostanzialmente tagliato a metà dal confine marittimo tra le due nazioni: qui, periodicamente, le marine danesi e canadesi arrivavano, issavano la loro bandiera e lasciavano ai piedi del loro stendardo una bottiglia di brandy danese o di whisky canadese, in modo che gli “avversari” potessero berla vedendo la rivendicazione territoriale. Questa disputa, in realtà particolarmente amichevole, durò tuttavia per 50 anni, concludendosi solo un paio d’anni con la definizione di un confine terrestre sull’isola.

La situazione è apparentemente più semplice per l’Antartide: qui ci sono rivendicazioni territoriali su cui sono spesso installate basi scientifiche da parte di sette Paesi, ovvero Argentina, Australia, Cile, Francia, Norvegia, Nuova Zelanda e Regno Unito.

La presenza dei Paesi sudamericani e dell’Oceania è data da una sostanziale “estensione” dei loro confini nazionali proiettati sull’Antartide, mentre quella francese e britannica deriva dal loro passato coloniale. Curiosa è la presenza dei norvegesi, frutto dell’esperienza di questa popolazione nell’esplorazione delle terre glaciali che ha dato luogo a numerose esplorazioni e successive rivendicazioni di parti del territorio.

Tuttavia, le rivendicazioni non sono effettivamente riconosciute a livello universale, ma sono il risultato del Trattato Antartico, firmato nel 1959 e comunque solo parzialmente previsto, dato che la rivendicazione cilena si sovrappone in parte alle aree argentine e britanniche. Soprattutto gli argentini sono forieri di rivendicazioni perché si dimostrano da subito i più interessati all’utilizzo del territorio antartico: è loro la prima base esplorativa e di ricerca, Base Esperanza, dove peraltro è stata registrata la prima nascita nel continente antartico, anche se questo primato è discusso a causa di una bambina norvegese che si presume sia nata in Antartide ma che solo successivamente è stata registrata in terre più ospitali.

Va notato che c’è una grande fetta di territorio antartico, 1.610.000 km2, che non è stata reclamata. Quest’area, Marie Byrd Land, fu scoperta dall’ammiraglio americano Richard Evelyn Byrd nel 1929, intitolando la zona alla moglie: nonostante ci fossero tutti i presupposti per una rivendicazione americana, gli Stati Uniti preferirono non avanzare alcuna pretesa, lasciando di fatto scoperta l’area ad eccezione di una stazione di ricerca dal 1957 al 1972.

Negli anni ’60, ’70 e ’80 sono emerse diverse rivendicazioni di piccole porzioni di territorio da parte di altri Stati sudamericani, come Ecuador, Uruguay, Perù e Brasile, che ovviamente hanno interesse a sfruttare il territorio per la ricerca scientifica. Oggi l’Antartide è un vero e proprio laboratorio mondiale con 77 stazioni lanciate da 29 nazioni diverse.

Il Trattato sull’Antartide, a cui è stato aggiunto un Protocollo nel 1998, vieta qualsiasi esercitazione bellica o estrazione mineraria per scopi diversi dalla ricerca scientifica, in uno dei veri punti di coesione geopolitica a livello globale. Tuttavia, il divieto di estrazione scade nel 2048, cioè 50 anni dopo la firma del Protocollo.

Secondo diversi osservatori, è probabile che il Protocollo venga nuovamente firmato e che la sua validità venga estesa, anche e soprattutto per non alterare alcun tipo di equilibrio ambientale e geopolitico. Tuttavia, è un fatto che, se nel 2048 ci saranno problemi di approvvigionamento molto più gravi di quelli attuali, l’Antartide potrebbe diventare molto interessante e, a quel punto, sarà difficile rallentare la “corsa al ghiaccio” lasciando irrisolte le dispute sulle rivendicazioni territoriali. Così come sarà molto complicato frenare gli interessi di Russia, Cina, Giappone e Stati Uniti nell’occupare porzioni anche significative di territorio.

Le regioni artiche e antartiche sono diventate l’epicentro di un nuovo, intenso scenario di “guerra fredda”. Potremmo dire che ormai questo rimane un gioco di parole, ma evidenzia comunque una realtà che richiede attenzione. Le maggiori potenze mondiali sono impegnate in una feroce competizione per il controllo delle vaste e preziose risorse nascoste in queste regioni remote. Un tempo queste aree erano considerate sterili e inospitali, ma da allora si è scoperto che ospitano un tesoro di risorse naturali, tra cui petrolio, gas, minerali e pesca. Data l’importanza strategica di queste risorse, non sorprende che molte nazioni stiano cercando di proteggere i propri interessi in queste regioni remote, ma preziose.